lunedì 24 agosto 2020

Nano

Nano

Il cavallo si chiamava Nano, era un sauro rosso-fulvo, molto bello per essere un cavallo da lavoro. Aveva quattro anni e tutta la giocosità di un giovane e in più l’esperienza e la scaltrezza che si matura stando con gli uomini. 

Era il cavallo di Riccardo e Prosperina, indimenticabili margari di Montesinaro per tantissimi anni. Il loro prezioso lavoro e la loro mandria, presenti tutte le estati, contribuivano in modo decisivo alla bellezza e salubrità del paese e delle località intorno. I prati brucati o falciati, i sentieri ed i piccoli rii tenuti in ordine sono ricchezze che non hanno prezzo. Prati che oggi non ci sono più, come a Fontanamora, alle Fontane e in basso lungo il torrente Valdescola, al Pinigrant, al Pian del Burun, a Baruz, a Uspiet, solo per citarne alcuni, sono stati invasi da erbe pioniere e piante nuove, e addio bellezza, addio panorami. Le loro mucche erano di razza pezzata rossa d'Oropa, come quelle dipinte da Lorenzo Delleani e ognuna aveva un nome. La mandria stessa era una pennellata di bellezza, lo scampanio tranquillo delle mucche al pascolo, l'abbaiare dei cani quando transitavano nella piazza del paese per raggiungere i prati sotto al Campone. Tutti si fermavano a guardare quella quantità di vita in movimento che irrompeva nella quiete del paesino. In quegli anni la loro "cascina" d'estate erano due baite alle Crose, lungo la Chiobbia, dove il grande tubo nero dell'acquedotto passa alto sopra il torrente. C'erano le stalle per le mucche ed i vitelli poi un recinto per il maiale e alcune galline che venivano rinchiuse la sera perchè la volpe non se le portasse via. La mungitura era fatta a mano poi il latte veniva filtrato e a volte scremato e portato poi in paese, tante cose e attrezzature da tenere pulite e in ordine, con poco spazio e tanta cura. Per un paio di estati ci fu anche un cavallo, Nano, che tutti ammiravamo.

Per me ragazzino era tutto interessante e Valter, il loro primo figlio, era il mio grande amico, passavamo lunghe e operose giornate insieme.

Era finita la fienagione giù a Passobreve e il cavallo non sarebbe più servito per diverse settimane. Perciò era stato portato, e lasciato solo, in un alpeggio abbandonato a mezz’ora dal paese. Il luogo era “l’Ert ‘d la Votta” (Orio della Volta sulle cartine), non proprio un alpeggio, un gruppo di baite alla base di ripidissimi prati, da tempo abbandonato, anche per la posizione ben poco soleggiata. Ormai da lì non passava più nessuno. E' situato nel vallone della Chiobbia, all’incirca di fronte alla località Pianlin che si incontra salendo verso Alpe Finestre. In questo posto remoto e solitario Nano ci stava benissimo, poteva pascolare o dormire a piacimento, il torrente per bere era vicino e gli alberi garantivano ombra e frescura. Ma non era in nessun modo limitato, da lì poteva spostarsi al Pian del Burun, o al Pinigrant, o addirittura in Valdescola.

Un giorno ero da solo alle Crose e Valter, il mio grande amico figlio del margaro, quell’anno aveva compiuto 15 anni e lavorava in fabbrica, ci si vedeva solo nel tardo pomeriggio quando arrivava con il pullman da Sagliano. Arrivò suo papà Riccardo e disse che bisognava andare a cercare il cavallo, l’indomani c’era da fare un trasporto con la Balila (un carro leggero a due ruote adatto a piccoli trasporti). Ma il lavoro da fare, lì alle Crose, era sempre molto, così mi offrii di andare io a recuperarlo, avevo 12 anni. Riccardo non ci pensò due volte, mi diede la cavezza e due pagnotte secche di quelle che davamo ai cani e al maiale, “Vedrai che ti serviranno”. Lui doveva andare intanto a riprendere le vacche che erano al pascolo su a Le Fontane, si prese anche Leda, la cagnetta bravissima a radunare la mandria. Così me ne partii da solo a cercare il cavallo che dopo tanti giorni chissà dove poteva essere. Ma le difficoltà sono un grosso stimolo, dirigendomi verso il Pinigrant pensavo già a che giro mi conveniva fare per coprire tutte le possibilità prima che venisse tardi.

Nano non aveva nessun finimento addosso, a parte i ferri agli zoccoli, e sapevo che non sarebbe stato facile trovarlo. Altre volte era stato lasciato, anche per un mese o più, a tegge Valdescola, un alpeggio più in alto, e anche lì era da solo, non passava quasi nessuno. Però almeno un paio di volte arrivarono alle Crose dei cacciatori tutti agitati raccontando che lassù c’era un cavallo pazzo e pericoloso! Uno di loro si era spaventato di brutto quando Nano gli era corso incontro, diciamo con vivacità, forse per chiedere qualcosa da mangiare. Un'altra volta un cacciatore, meno fortunato, s’era disteso a pancia in giù sull’erba di un dosso, senza togliersi lo zaino, e stava “binocolando” i camosci senza aver visto, ahimè, che in zona c’era un cavallo. Nano si era avvicinato in silenzio e gli aveva dato una bella musata allo zaino, forse cercando del pane... “Se non son morto sul colpo non muoio più, quel cavallo è pazzo! Tenetelo legato!“. Riccardo si divertiva un mondo per queste cose, era orgoglioso del suo Nano.  

In effetti era un cavallo vivace e intelligente. Valter ed io a volte lo prendevamo per fare un giro, e capitava sempre qualcosa di memorabile, era come un compagno di giochi. Sembrava capirci e ci metteva del suo perché la giornata non fosse monotona.

Un giorno era scappato dalle Crose ed era andato a fare un giro nel paese, Montesinaro. Il suo scopo era andare a mangiare l’erba alta del prato dietro la chiesa, per arrivarci c’è la stretta stradina che parte dal cimitero e passa vicino al parco giochi e lì, nel punto più stretto, aveva incontrato Eda che passava con una gerla a spalla. Eda era la stimata signora che gestiva il negozio del paese e di pomeriggio trovava il tempo per fare lavori più agresti, forse in aiuto a qualche parente.

La poveretta se lo vide arrivare baldanzoso nella strettoia e avendo a spalle la grossa gerla non poteva scansarsi più di tanto. Conoscendo Nano sono certo che, valutando che lo spazio era sufficiente, avrà aumentato il passo (e lo strepito degli zoccoli ferrati) risolvendo il problema a modo suo, ben certo di non toccare la persona. E così fu, senza alcun danno, ma Eda si prese un bello spavento e alzò la voce per avvertire altri del paese che stava arrivando un pericolo, il cavallo pazzo. Sulla potenza di voce della gentile signora posso ben garantire io: la vidi un giorno che parlava ad un’altra donna del paese, erano una in piazza e l’altra al Campone, cento metri e passa! Valter ed io che già eravamo sulle tracce del fuggitivo la raggiungemmo subito. “Prest sun morta!  A l’è mosch !  “ (sono quasi morta, è pazzo!). Valter scese nella parte bassa del prato per avvicinarlo, ma il cavallo, ormai eccitato per il trambusto, fuggì di corsa su per il prato in salita, con uno slancio superò il muretto alto un buon metro e mezzo e fu sullo stradino. Avevo capito le sue intenzioni e mi ritrassi nella strettoia per chiudergli la fuga e lì giunse al trotto col solito fragore di zoccoli sulle pietre. Con tutta la calma di cui ero capace gli sbarrai la strada a braccia aperte. Fermò il trotto fino a bloccarsi a un metro da me, lo presi per la cavezza e si calmò, come sempre succede. Intanto si levavano le voci delle donne dai balconi delle case vicine, per le proteste di rito.

Ma Nano, benché un po’ giocoso e pazzerello era capace di capire le situazioni ed evitare incidenti. Un giorno eravamo giù a Gaby, il grande piano che c’è a sinistra dopo il ponte Pinchiolo, Valter ed io decidemmo di provare il galoppo. Non esisteva nessuna sella, si cavalcava sempre a pelo e al posto delle redini c'era la corda della cavezza. Prima toccò a Valter, sempre dotato per le attività fisiche, con buon successo fece una galoppata di almeno cento metri in quell’unico tratto piano dell’alta valle. Poi toccò a me. C’è da dire che Nano, pur essendo di bella figura era certo più largo di schiena di un cavallo da sella, e stringerlo con le ginocchia e i talloni non era poi molto facile, fatto sta che dopo venti o trenta metri di galoppo cominciai inesorabilmente a scivolare a sinistra, lui pian piano rallentò fino a fermarsi quando ormai ero solo appeso al collo, agganciato con il tallone al suo garrese. S'era fermato per non farmi cadere, una cortesia da vero amico. Un’altra volta eravamo a Rosazza, sulla Balila trainata da Nano, nella strada che passa dietro il castello. Valter reggeva le redini senza altri appoggi, io dietro aggrappato alle sponde, tutti e due in piedi sul carro con il cavallo lanciato al trotto. La Balila aveva le ruote gommate e Valter era un patito della velocità. E posso assicurare che la sensazione di velocità su un mezzo del genere è veramente forte. Già prima del castello la strada è in discesa e poi aumenta ed il cavallo si lasciò andare trottando più forte, Valter lo richiamò con le redini e la voce, ma senza risultato. Subito inizia una lunga curva a sinistra che poi si stringe ancora di più, e a lato strada erano ammassati enormi pietroni, da paura! Finalmente Nano cominciò a frenare con un fracasso spaventoso di zoccoli strisciati sull’asfalto e il carro sobbalzava a destra e a manca, insomma ce la cavammo per il rotto della cuffia… e senza fare danni. A volte lo prendevamo con noi quando al mattino si portavano le vacche al pascolo. Poi, dopo averle lasciate nel posto prescelto, salivamo ambedue a cavallo e si faceva qualche giro dove il sentiero lo permetteva, è bello cercare funghi stando a cavallo. Una volta siamo andati al Pian del Burun, dove ci sono gli “Stansit”. Passato il ruscello dell' Eua Seca c’è un tratto dove il sentiero si perdeva un po’ ed era così ripido che in due in groppa non si poteva stare, allora io scendevo e camminavo appeso alla lunga coda sfruttando la sua potenza, mentre Valter restava abilmente in sella aggrappato alla bionda criniera. Ricordo benissimo le lunghe scintille che scaturirono dai ferri degli zoccoli quando scivolò più volte su un lungo pietrone piatto e in forte pendenza. Sì lo facevamo faticare, ma in qualche modo poi Nano ci faceva capire che si era divertito anche lui.

Tornando però alla ricerca del cavallo, ricordo che girai un bel po’ per il Pinigrant e poi su per il sentiero verso il Pian del Burun, ma tutto era silenzio e non c’era in terra sterco di cavallo nè altri segni di passaggio.

Ero quindi abbastanza sicuro di trovarlo all’Ert 'd la Votta. Quando ci arrivai ebbi subito conferma che era lì, mi giravano intorno alcuni piccoli tafani che noi chiamavamo “mosche grigie”. Se c’erano i tafani c’era anche il loro ospite! Girai un po’ dappertutto intorno alle baite quasi tutte dirute, vicino al torrente e nei prati intorno, si vedeva che l’erba era stata brucata, c’erano le cacche del cavallo e alcune abbastanza fresche, ma di Nano nessuna traccia. Provai anche a chiamarlo, ma nulla.

Poi mi ricordai di cosa mi aveva detto Valter, cioè che spesso entrava nelle stalle delle baite abbandonate per stare al fresco e al riparo da mosche e tafani. Allora tornai vicino alle baite e davanti ad una in rovina vidi chiari segni di frequentazione.

Mi affacciai con precauzione alla porta della piccola stalla ed era lì, una bella testa di cavallo fiocamente illuminata si staccava dallo sfondo buio. Non lo so spiegare, ma i cavalli riescono ad essere molto espressivi, direi sottilmente espressivi, anche senza muovere un muscolo. Nano mi stava guardando immobile, forse stupito, ma certo dispiaciuto di essere stato scoperto. Ora bisognava prenderlo.

La porta della stalla era piccola e bassa, per entrarci dovetti chinarmi. Parlandogli piano piano mi avvicinai, tenendo la cavezza nella destra nascosta dietro la schiena, nella sinistra avevo una pagnotta e dovetti offrirgliela più volte prima che accennasse ad annusarla. Intanto mi ero messo un po’ di fianco a lui, ma stando sempre tra lui e la porta, se fosse uscito avrei avuto meno speranze di prenderlo. Appena cominciò ad assaggiare il pane gli buttai, non visto, la cavezza sul collo. Fece un sobbalzo ma subito si calmò, “si arrese”. Sempre parlando gli vestii correttamente la cavezza sulla testa poi lo portai fuori e gli diedi l’altra pagnotta. Sapeva bene che ero lì per portarlo a casa, che la sua vacanza felice era finita. Cominciammo a scendere, lo tenevo per la corda della cavezza, ero molto tentato di montargli in groppa e tornare così, naturalmente al passo. Ma il sentiero era poco praticabile specie quando si avvicinava al torrente, e c’erano rami bassi. E poi ero molto felice e pago di essere riuscito in questa piccola impresa, era solo da un mese che conoscevo il grande Nano, ed ero appena un ragazzino.

Da quel giorno è passato ben più di mezzo secolo. Piccole esperienze come questa mi confermano che chi da giovane ha avuto la fortuna di vivere in alta Valle Cervo, dopo, dovunque vada e per tutta la vita, essa lo accompagna.



 

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Bello !

Anonimo ha detto...

Bello, descrive bene le sensazioni date da quei luoghi..
"la valle" resta per sempre..
(Renzo)