martedì 5 luglio 2022

Il taglio del bosco

Il taglio del bosco negli anni '70


“Qui ne avrò per tutta la primavera” pensò l’uomo entrando nel grande faggeto che s’incontra salendo da Montesinaro alle Fontane, posò gli attrezzi vicino ad un masso e cominciò ad osservare i grandi alberi uno ad uno camminando avanti ogni volta che la mente gli diceva va bene qui ho capito, fece tutto un percorso all’interno del faggeto controllando gli alberi dubbi e tralasciando quelli ai margini, tornò dove aveva posato gli attrezzi a prendere vernice rossa e pennello e cominciò a segnare gli alberi da abbattere, ogni tanto ricontrollava posizioni e distanze delle piante e dove indirizzare la caduta, quand’ebbe finito nascose gli attrezzi più pesanti dentro una delle baite semi crollate, tornò a casa e dedicò il pomeriggio a scegliere ed affilare gli attrezzi, per tutto il tempo pensò ai faggi che aveva segnato, alle distanze, alle pietre piantate e pitturate di rosso che erano i termini dei piccoli appezzamenti privati, a chi del paese gli aveva dato il permesso malvolentieri, al sentiero che doveva rimanere libero, non pensò alle piante come individui, non dubitò che avessero capito e tuttavia dormì poco e agitato fino al mattino presto quando prese la grossa motosega l’olio bruciato e la benzina la catena di ricambio la lima a coda di topo e altri ferri, con tutto quel carico guadò la Chiobbia e in breve fu nel faggeto. “Adesso cominciamo” si disse con determinazione, ma prima fece ancora una volta il giro delle piante segnate per esorcizzare l’emozione con il ragionamento geometrico delle distanze, e alla fine il rombo della motosega riempì la valle e tutti si accorsero che stava succedendo qualcosa di grosso. In quegli anni nell'alta Valle Cervo non c’erano ancora né caprioli né cinghiali, ma le volpi e i fagiani di monte le martore e le donnole, le arvicole e i toporagni, i ghiri, le vipere ancora nelle loro tane, e tutti gli animali che non so furono scossi all’esordio di quel rumore possente e sconosciuto che echeggiava nella valle fino ad inquietare i camosci nei pascoli alti, e nulla possiamo dire della paura provata dalle piante, ma sappiamo che esiste. Un rumore tremendo che cessava con lo schianto d’un albero che cade e spezza i rami di altri alberi e fu così per giorni, la motosega urlava a lungo rabbiosa poi il suono cambiava mentre i rami grossi venivano tagliati per fare ordine nel groviglio vegetale, a mezzogiorno scendeva il silenzio quando l’uomo si fermava per un pasto frugale e un sorso di vino e alla sera le volpi andavano a cercare nella confusione qualcosa da mangiare, le briciole del pane, la crosta del formaggio, la scatola profumata delle sardine ancora unta d’olio, e tutto questo per diversi giorni. Infine il lavoro cambiò, la motosega urlava solo ogni tanto e l’accetta con i suoi colpi secchi e precisi si faceva largo tra le ramaglie e braccia forti e sapienti impilavano cataste di rami piccoli da lasciare lì e altre di rami grossi da portar via, così dopo tre settimane molta luce entrava nel faggeto e a terra era tutto ordinato tranne i grandi tronchi caduti in varie direzioni. L’uomo posò allora gli attrezzi e iniziò un lavoro diverso, valutò i tronchi a metri cubi con la formula del volume del cilindro e in quintali con il peso specifico del legno di faggio verde, li tagliò in parti da un metro e mezzo ed ognuno fu spaccato in lunghezza a metà o in quattro o anche più fino ad avere un peso trasportabile, lavorando sempre a mani nude usava un’ascia una mazza e dei cunei di ferro piantati in successione seguendo la vena del legno e la sua esperienza, spaccava i tronchi che finivano squartati in carne viva come in un macello e il profumo pulito e fragrante del legno si spandeva intorno mentre dai ceppi tagliati bassi uscivano lentamente litri di linfa ed i primi insetti di primavera venivano da lontano a succhiarla guidati dai loro sensi misteriosi e infallibili. Dopo diversi giorni tornò il silenzio nel faggeto dove in alto rimanevano squarci tra le chiome e la terra nera vedeva il cielo libero dopo tanti anni, ma tutto era pronto, i rami accatastati in mucchi separati per dimensione, il terreno era ripulito e non rimaneva che portare via la legna prima dell’inverno e prima che venisse attaccata dalle ife dei funghi con la loro micidiale invasione aliena. Il bosco di faggi era poco più in alto del paese e non c’era pendenza sufficiente per far scendere i fasci di legna mediante il cavo d’acciaio e i ganci fin oltre il torrente e fino alla strada, così lui aveva avvisato la squadra dei mulattieri di un’altra valle che c’era lavoro per loro. Passarono i mesi fino alla prima settimana d’agosto quando giunsero da lontano otto muli da soma ferrati da montagna e bardati con i basti dei trasporti pesanti che risalirono tutta la valle suscitando la curiosità di chi li vide mentre passavano in fila, mentre scalpitavano infastiditi dai cubetti del selciato di Campiglia e dai profumi strani della gente nella strettoia di Rosazza. I mulattieri presero alloggio alla Locanda Rosa Bianca e il giorno dopo cominciarono il trasporto guardati con rispetto da chi del paese conosceva quel lavoro di coppia uomo e mulo che richiede conoscenze secolari e attenzioni quotidiane, e pochi comandi fatti di parole sussurrate come tra amici. Erano muli neri e grossi come non se ne vedono in una piccola valle come quella del Cervo, per una settimana bevvero l’acqua della Chiobbia e della sorgente del Marun e con passo sicuro e senza mostrar fatica fecero calare le cataste del faggeto e crescere quelle di Montesinaro finché finì la legna, si fermarono ancora qualche giorno in paese per trasporti minori poi ripresero la strada e scomparvero dalla valle, e forse sono scomparsi per sempre. Ma il faggeto già in quel primo anno aveva richiuso in parte le finestre sul cielo, i faggi mediani sapientemente lasciati intatti si erano allargati a sfruttare la luce e dopo tre o quattro anni nell’autunno i funghi, la Famigliola Buona, crescevano intorno ai ceppi tagliati e, io li ho visti, avevano il colore grigio luminoso della corteccia di faggio, ma questo per pochi autunni e poi non più, mentre dieci anni dopo solo i ceppi rivelavano il grande taglio del ’70. Adesso, dopo dieci lustri, si continua a passare con il sentiero sotto il faggeto e chi è del mestiere sa che servirebbe un altro taglio selettivo per ridare luce e nuova forza a questo bosco speciale che chi passa la Chiobbia e sale alle Fontane si porta nel cuore, ma per tanti motivi il taglio non si farà mai più, mai più entrerà nell’ombra del faggeto un altro uomo con pochi attrezzi e tanta esperienza, pensando “Qui ne avrò per tutta la primavera”.

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