All' alpe Pianale salendo per la “Scala”
Domenica
31 maggio 1999
D'improvviso come
una sorpresa alle nove di questa mattina mi sono reso conto di avere la
giornata libera, e mi è venuta l’idea di andare all’alpe Pianale, a 1890 metri
nella selvaggia e solitaria Valdescola.
Parto
da Montesinaro alle 10, giunto al torrente, alle Crose, incontro Riccardo che fa pascolare le mucche nel grande prato a lato della Chiobbia. C’è una manza giovane giovane che vive i suoi primi
giorni di pascolo e Riccardo le ha legato una lunga corda al collo di modo che
quando questa cerca di allontanarsi la può trattenere, non è che lei voglia scappare
ma è sciocca e sperduta nella vastità dei prati liberi e segue chi passa e non
capisce ancora i comandi del cane.
Mi
fermo a parlare con Riccardo, il margaro che conosco da sempre, accosciato a
terra con lui ci raccontiamo brevemente le novità dell’inverno fumandoci una
sigaretta di buon trinciato forte. Pochi minuti e poi riparto dopo avergli
chiesto informazioni per salire al Pianale passando dalla “Scala” , una via più
diretta rispetto al sentiero normale, sul lato opposto del torrente, sconosciuta
a tutti ormai. Con poche parole, che al momento mi sembrano oscure, mi
tratteggia il percorso.
Ma c’è
da fidarsi, Riccardo con suo fratello, quando erano bambini, hanno passato diverse estati su per i ripidissimi
canaloni della Valdescola, a pascolare le pecore e anche qualche mucca che
immagino imparentata con i camosci. Lui e il fratello giravano scalzi, le
scarpe si distruggono su quelle pendenze, né
ci sono pericoli maggiori di essere morsi da vipere, chi va scalzo sa bene dove
mette i piedi. Di quei pendii scoscesi e complessi conosce come nessun altro tutto quello che può servire, e in qualche occasione, in aiuto al soccorso alpino, so che l'ha dimostrato.
Un
breve saluto e poi mi avvio lentamente nella giornata calda, nel torrente non c’è
nessuno, solo un paio di fuoristrada parcheggiati dove finisce la strada sterrata alla confluenza di Chiobbia e Valdescola, sono di quelli che hanno la
baita a Baruz.
Sempre camminando di buon passo cerco un
alberello di frassino per farmi un bastone, più avanti raccoglierò un ramo già tagliato
di betulla, si cammina bene con un bastone, non importa se è improvvisato. Passato il torrente il bosco è rigoglioso di foglie nuove e ancora
piccole, le felci si stanno ancora srotolando e non c’è la minima traccia di
vento.
Mi
innalzo sempre spingendo un po’, come mi succede quando sono solo. All’entrata
del prato di Tegge Valdescola c’è un cancelletto di rami intrecciati che chiude un
passaggio obbligato, ci appoggio un fuscello a fare da spia dopo essere passato.
La
fontana di Tegge Valdescola, a 1360 metri, non ha acqua, senza fermarmi
continuo e trovo i segni rossi sulle pietre del sentiero che porta al Viasco e
poi al Pianale. Incontro un asino solitario che mi viene incontro speranzoso, ma non ho nulla da dargli, chissà di chi sarà? Piùi avanti il sentiero attraversa il torrente e continua
sull’altro versante, ho sete e fame, ho sudato molto. Mi fermo a bere l’unico
succo di frutta che ho e mangio due piccole brioches, mi rimane una tavoletta
di cioccolata e poi del pane secco e un po’ muffo che ho portato per lasciarlo
ai camosci, ne sbocconcello un po’.
Ancora
pochi minuti poi mi fermo per cercare il sentiero ripensando alle scarne
indicazioni di Riccardo : ”...non salire al Viasco sopra dove ci sono i resti
delle baite, scendi verso il torrente, c’è un piano…. “ Già ma dove? qui sotto c'è un tratto quasi piano lungo il torrente, ma è a questo che alludeva Riccardo? o più avanti?… Prima di
scendere nel greto e attraversare il torrente prendo il binocolo e perlustro il
versante opposto. E’ decisamente impervio quasi verticale… dunque :
“Ci sono due canali uno che viene giù dal Bergamasco e uno dagli Altari “ ….
Valter,
il figlio del margaro e mio storico amico, m’aveva detto che lui stesso aveva segnato, anni prima, con la vernice rossa la partenza de "la Scala”, inutilmente col binocolo cerco segni
sulle pietre.. ma è tutto ripidissimo… c’è qualche traccia in traverso come una cengia che potrebbe essere una traccia di sentiero…ma si perde nelle
paretine… niente da fare. Decido che se non trovo di meglio potrei salire dove
c’è una specie di parete erbosa larga venti metri, ripidissima ma che sembra percorribile, anche se
col binocolo è difficile valutare le pendenze visto che si vede tutto piatto e
senza prospettiva.
Scendo quindi tra gli arbusti nel piccolo ripiano a fianco del torrente, lo attraverso stando attento
ai buchi sul residuo della valanga di neve che lo copre e risalgo un poco
l’altra sponda. Ed ecco davanti a me in alto su una paretina verticale un
grosso cerchio rosso che segna l’attacco della “scala”, solo ora ricordo che Valter me lo aveva detto
(tre anni fa) che aveva fatto un cerchio
in modo che fosse visibile da lontano.
Comincio
quindi a salire in mezzo al “metti” , più correttamente chiamato "siun", i grossi ciuffi d’erba dalla sezione tonda,
resistenti ma molto scivolosi, è davvero ripidissimo qui. E’ proprio questo il punto che avevo scelto
guardando col binocolo, mi complimento con me stesso. Salgo in fretta, dopo un
po’ guardo in basso e la lingua di neve è già cinquanta metri più giù, non per
nulla la chiamano “la scala”.
Poi
la pendenza diminuisce ma scompaiono le tracce di sentiero e pure i segni rossi
sulle pietre. Ripenso alle parole di Riccardo:
“C’è un ciapei (una pietraia) devi traversarla in diagonale salendo,
bada che c’è un sentiero tra i massi della pietraia.“
Attraverso
un canalino pieno di neve poi salgo sulla pietraia, non ci sono le marche e
nonostante che vagabondi in su e in giù non vedo tracce di sentiero né omini di
pietre, ma non importa, da qui ho idea di dov’è
il Pianale, devo solo trovare il punto buono per traversare un canale ripidissimo dal quale scende una cascata scrosciante.
Alla
fine della pietraia, quasi al suo apice, ritrovo un paio di marche di vernice
che mi guidano ad attraversare su una larga cengia il canale con acqua che
scende, arrivo in un prato ripido e lo risalgo un po’ ed ecco le baite del
Pianale, ci sbuco appena sotto, proprio
come diceva Riccardo. Mi ha detto pochissimo,
era l’essenziale.
Faccio
il giro delle baite, sono più di quante ricordassi, è da venti anni almeno che
non salgo quassù, sono otto o dieci le baite, nessuna ha il tetto completamente
integro, nessuna ha la porta, rimangono tracce di assi qua e là, una pentola,
qualche residuo di attrezzo, un’aria d’avamposto di frontiera abbandonato.
Grandi muraglioni spartineve a monte proteggono le baite dalle valanghe
invernali. Fino a trentatré anni fa un uomo abitava qui tutte le estati con due cani due asini e più di quattrocento pecore. Era Battista il pastore, eravamo amici.
Mi sistemo su una pietra piatta fuori da una baita, mi
spoglio degli abiti sudati, fa caldo e non c’è un filo di vento. Su verso la
cima del Monte Bo salgono ripidi i canaloni, c’è un po’ di nuvolaglia solo verso la punta, ma il cielo è libero verso le cime del Manzo e del Cravile.
La
montagna è bellissima in questa stagione, nuda con l’erba giovane giovane che
sta crescendo, la terra lavorata dal gelo è morbida e soffice, i profumi sono nuovi e tenui e non c’è nessuno
in giro quindi gli animali sono tranquilli ed è più probabile riuscire a
vederli. Tengo d’occhio alcune tane di marmotta che ho localizzato salendo il
prato, ma non ne apparirà nessuna.
Mentre
sbocconcello la cioccolata un rumore non molto lontano mi sorprende: un
camoscio sta scendendo, è appena montato su un lungo canalone di neve e ora
scende come giocando, dando cornate al vento e ponendosi al traverso a grandi
balzi ora a destra ora a manca, ogni balzo qualche metro di scivolata, sembra
un ragazzo che gioca. Una rappresentazione esplosiva di forza e vitalità.
Lo
osservo a lungo col binocolo, è un grosso maschio. Dopo un po’, cento metri più
giù, si corica su un pietrone piatto e si gode il sole, come me. Per lui è un
giorno come tanti, per me è un giorno
speciale dopo tutti i mesi di lavoro e di auto e di ambienti chiusi e di poca
luce e di peggio ancora… oggi c’è luce, aria pulita, c’è caldo, c’è montagna e
animali e piante e tranquillità e
quell’energia e quell’eccitazione che ti mette in corpo la primavera.
Il
camoscio è ancora lì quando, dopo più di mezz’ora, comincio la discesa. Lascio
un po’ di pane in vista sui sassi, chissà chi se li mangerà? Durante la discesa
cerco e finalmente scopro il sentiero nella pietraia citato da Riccardo, è
proprio netto e ben fatto, quasi una trincea tra i grossi massi. Corre tutto
nella parte alta della pietraia, ecco perché non l’avevo incontrato prima
salendo, cerco di mandare a mente il punto dove comincia per poterlo ritrovare
in futuro poi continuo la discesa.
Scendo e sono stanco, un po’ disidratato per aver sudato molto e bevuto
solo poca acqua di fusione che è priva di sali e ben poco adatta a dissetare. A
Tegge Valdescola ritrovo il cancelletto sempre tenuto chiuso dal mio fuscello
di poche ore fa, quindi non è passato nessuno dopo di me.
Poco
oltre dove ricomincia la vegetazione e il sentiero entra in un faggeto sento un
rumore più avanti, mi fermo e vedo due camosci, la madre ed il piccolo
dell’anno prima che mi hanno sentito e visto ma si fermano a brucare ramoscelli a quindici
metri da me. Immobile li osservo mentre pian piano si allontanano
mimetizzandosi nel colore delle foglie secche del bosco.
Riprendo
poi la discesa e rallento molto il passo e mi guardo intorno più che posso, è
presto, è bello stare quassù, e non ho
voglia di tornare a casa.
Ponderano,
notte d’estate 1999
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