Alluvione 1994
Note sull’alluvione
del 6 novembre 1994.
Ho un ricordo vago
dei giorni di pioggia che precedettero l’alluvione del 5-6 novembre ’94, ma so
che ero preoccupato, che pensavo questo è troppo, appena potevo andavo a vedere
i torrenti da una zona alta di Biella, da lì in lontananza si vede il Cervo, e
poi facevo una scappata a Borriana a vedere l’Elvo. Mai li avevo visti così.
Ero veramente preoccupato; in via Dante, non lontano dal mio ufficio, vidi una
massa di manifesti completamente staccati dal muro, anni ed anni di manifesti
sovrapposti, centinaia di chili di carta srotolati a terra ai piedi di un muro
rivolto a nord, pensai inquieto che ci sarebbe voluto un idrante e due
autobotti d’acqua per far staccare tutto così. Nel pomeriggio di sabato vidi
alla televisione le dimensioni del problema, campi e paesi allagati, strade e
ponti scomparsi. Poi nominarono il quartiere Orti di Alessandria, dove c’è la
casa di Roberto, provai subito a telefonare, suonava occupato.
Ci sarebbe da
scrivere per giorni per narrare anche solo alcune delle piccole avventure
vissute insieme a Roberto negli anni dell'adolescenza e della giovinezza,
avventure che mi hanno sempre lasciato qualcosa, un insegnamento, un po’ di
esperienza in più.
Come la notte passata
nei sacchi a pelo addossati alla parete per evitare la pioggia sotto uno
strapiombo presso il Colle della Vecchia, chissà qual era la meta?. E la notte
sulla pietra inclinata oltre il Colle della Mologna Grande, con una coperta in
due sotto un cielo altissimo scintillante di stelle, ad aspettare l'alba per
cominciare la caccia alle rane nei laghetti montani. E la salita notturna al
monte Bò il tre gennaio del ‘72 per vedere l'alba, le racchette da neve, i
ramponi, il vertiginoso canalino ghiacciato da attraversare camminando verso la
luna, la neve di farina fino al petto vicino alle baite al Giassit, i dieci
gradi sotto zero in punta al Bò diligentemente misurati con termometro a
mercurio e c’era un vento oltre i cento all'ora, lo spavento stupefatto quando
sulla stretta punta una folata maligna ci spostò tutti e due di peso di vari
metri, le foto mosse per l'impossibilità assoluta di tener ferma la fotocamera
benché coricati a terra, le barbe bianche di ghiaccio durante la discesa, lo spettacolo
andino dei "penitentes" su in Piazza d’Arme.
E ancora dal monte Bò
un’altra volta la discesa dalla cresta degli Altari, allucinante viaggio di
cinque ore nella vertigine precipitante di prati verticali e pietre incerte che
sfidavano la legge di gravità, dopo la notte passata nel piccolo rifugio della
vetta. Roberto ed io, soli e slegati, silenti, testimoni l'un l'altro d'una
buona prova di sangue freddo e di abilità. Cosa è che spinge gli adolescenti a
cimentarsi in simili azzardi mentre anche i camosci ci guardavano ansiosi per
la nostra sorte?
Tante cose, tante
avventure e alcune inenarrabili, ma forse necessarie a quell’età.
Dei tanti ragazzi che
venivano in “villeggiatura” a Montesinaro Roberto era l'unico a conoscere la
montagna, l'unico a capire l'ambiente ben oltre le solite passeggiate sui
sentieri battuti che erano il massimo slancio d’avventura e motivo di vanto per
tutti gli altri.
Ci si vede di rado,
lontananza lavoro e figli rendono meno frequenti le occasioni di incontro, ma
appena possiamo andiamo ancora a spasso nei boschi o in montagna, per sentire
ancora quell'atmosfera di tanti anni fa, quel guardare il mondo camminando fuori
dai sentieri, e scambiarci opinioni e osservazioni leggendo l’ambiente intorno,
come sa fare lui, come si legge un libro.
Mia moglie ed io
eravamo stati a trovarli la domenica seguente, otto giorni dopo l'alluvione, ci
eravamo andati con due auto cariche di cose che pensavamo utili a chi ha avuto
la casa allagata.
Cento chilometri in
macchina, neanche due ore e si piomba impreparati in un mondo diverso, grezzo e
fangoso, fa un effetto particolare.
Come suggerisce il nome
l’antico quartiere Orti è lungo la riva del fiume Tanaro leggermente più in
basso del resto della città. Tra quelle strade, nei cortili e dentro le case
l’acqua era entrata nel volgere di qualche ora fino all’altezza di due o tre
metri e lentamente era defluita dopo diversi giorni. La casa di Roberto era
raggiungibile solo a piedi, tutto il quartiere Orti era un cantiere fervente di
attività nel quale entravano solo macchine da spostamento terra e persone in
tuta con stivali ed elmetti e pale e altri attrezzi, ne uscivano solo maschere
di fango e stanchezza.
Portammo in quel
girone di purgatorio anche un chilo di bignè, sentendoci abbastanza stupidi con
in mano il pacchetto rosa in mezzo al fango senza un angolo dove poterlo
appoggiare. Ancora oggi Patrizia ci dice che quei bignè fragranti nella loro
carta di pasticceria le ricordarono che esisteva ancora un mondo di normalità,
di cose buone e gradevoli. Dopo otto giorni passati nel fango al freddo senza
corrente elettrica senza riscaldamento con pochi miglioramenti apprezzabili del
lavoro spossante, la vista dei bignè le diede nuova forza per continuare.
Ma chi ancora una
volta mi stupì fu Roberto, pareva incredibile vederlo lavorare con ordine e con
la solita espressione di tutti i giorni in mezzo a quella fangaia da fine del
mondo, in quella città in stato di guerra dove tutta la gente girava con un’aria
costernata, mentre il fango non si era ancora seccato sui lampadari. Dove anche
i più volenterosi avevano rinunciato a salvare tante delle proprie cose
inzuppate d’acqua e di limo, e lui che pensava ai libri antichi e ai vecchi
bicchieri e aveva cura di tutto e dirigeva i dubbiosi in mezzo a un pantano mai
visto, a un odore sottile di fondo di lago.
Fu solo per le
insistenze di sua moglie che mi raccontò, tempo dopo e con poche parole, della
drammatica notte in cui il fiume aveva abitato le case fino al primo piano, la
notte che lo vide passare attraverso i tetti e i terrazzi, per portarsi a casa
appeso al collo un bambino solo e sofferente d'asma, sperando stesse più
tranquillo con i suoi bimbi, attraversando come l'uomo ragno le facciate delle
case da un balcone all'altro a strapiombo su quell'incubo d'acqua e di buio.
E nella notte il
bimbo non stava bene, alle otto del mattino salì su un canotto dei pompieri, a
mezzogiorno arrivò finalmente all’ospedale che dista un chilometro. Così era il
quartiere Orti di Alessandria.
Solo tanto tempo dopo
mi raccontò della corsa in auto a tavoletta per tornare a casa da fuori
provincia dopo aver sentito il pericolo col suo fiuto squisito da animale di
fratta, mentre gli altri vedendo la prima poca acqua che arrivava per strada
pensavano a un tombino otturato. Invece era il Tanaro.
Mi accennò al
pomeriggio di paura passato a spostare gli oggetti di casa dal piano terra al
primo piano, dopo aver guardato attoniti e impotenti l'acqua torbida che
entrava lentamente, apriamo le porte, e l'acqua copriva il pavimento lucido
della sala, stacchiamo la corrente prima di rimanere fulminati, e l'acqua
entrava in cucina e nei bagni, chiudiamo il gas, in fretta portiamo via i
tappeti, le sedie, i cuscini dei divani le cose di cucina i cibi del frigo i
mobili piccoli e tutti gli oggetti, e l’acqua che saliva lenta dalle caviglie e
poi su, gelida e sporca, fino al petto, togliamo i quadri, che incubo, e ancora
su a sfiorare il soffitto e già si pensava di spostare tutto dal primo piano al
secondo, e scendeva la notte e pioveva ancora e il terrore si spandeva nel
quartiere.
Lo accompagnai quella
domenica per le strade intorno a cercare l'auto del lavoro abbandonata vicino a
casa il sabato precedente dopo il rapido rientro. Camminammo nel fango alto
fino alla caviglia, rimescolato e finissimo che copriva tutto, passammo accanto
a barche arenate in mezzo alla città, vedemmo la nuova scuola materna con i
disegni dei bimbi ancora appesi al muro sporchi dell'acqua che li aveva
superati, vedemmo la carcassa di un cane, le galline affogate, vedemmo un
vecchio muro crollato, le cataste di masserizie, le ruspe nei fragili cortili,
lo spettacolo sconcertante dei soldati che spalavano una spanna di limo biblico
dal campo da calcio, ma anche le facce vive e schizzate di fango dei tantissimi
volontari giunti da ogni dove, organizzati e non, che si mettevano a
disposizione di una famiglia a caso e facevano di tutto, incuranti del freddo
del fango della mancanza di cibo caldo, accettando i molti pericoli possibili
di crolli, di fughe di gas, di veleni dispersi. Sentimmo l'odore acre di gasolio
e nafta venuti a galla da cisterne aperte, girammo piazze dove erano state
portate con le ruspe centinaia di auto affogate. Nella piazza più lontana nella
più fangosa trovammo la sua, una Panda bianca della Regione Piemonte, l'aprì,
nel bagagliaio c'erano gli scarponi da alpinismo che usava ora per i rilevi in
posti difficili, i suoi "Galibier" che riconobbi all'istante con una
sensazione amara di nostalgia. L’odore di nafta che li aveva impregnati ce li
fece lasciare lì e capii con un senso di impotenza che l'alluvione ti può
portare via anche i ricordi.
Poi Roberto prese dal
vano del cruscotto, ancora pieno d’acqua e sotto un centimetro di limo
finissimo, il quaderno dei rapporti di viaggio, lo strizzò, voltò le pagine
fradice, con la matita bagnata scrisse del suo ultimo percorso la data e il
luogo, lesse sul contachilometri i chilometri fatti, li annotò, diligentemente,
tranquillamente, mentre io lo guardavo incredulo compilare quel libro fradicio
pensando che mai nessuno l'avrebbe più aperto e letto, e il concetto stesso di ufficio caldo con le
scrivanie ordinate mi sembrava lontano e improbabile in mezzo a quella mota che
imprigionava gli stivali.
Trattenne il libro e
i documenti di bordo, buttò il resto nell'abitacolo e chiuse la portiera.
Tornando verso casa
mi raccontò dell'apparizione dei soldati, una bella colonna militare passata
lungo il viale grande della città, ripresa dalle tv, con un bel generale
impettito alto sul cingolato alla testa, sfilarono e non si videro più, ma
forse erano quelli che spalavano fango nel campo da calcio.
Non c’è nulla di
meglio che le braccia e il cuore dei volontari, dopo un simile evento, per
tornare alla normalità.
Sera d’aprile ‘98
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