giovedì 6 giugno 2024

Alluvione 1994

 

Note sull’alluvione del 6 novembre 1994.

 

Ho un ricordo vago dei giorni di pioggia che precedettero l’alluvione del 5-6 novembre ’94, ma so che ero preoccupato, che pensavo questo è troppo, appena potevo andavo a vedere i torrenti da una zona alta di Biella, da lì in lontananza si vede il Cervo, e poi facevo una scappata a Borriana a vedere l’Elvo. Mai li avevo visti così. Ero veramente preoccupato; in via Dante, non lontano dal mio ufficio, vidi una massa di manifesti completamente staccati dal muro, anni ed anni di manifesti sovrapposti, centinaia di chili di carta srotolati a terra ai piedi di un muro rivolto a nord, pensai inquieto che ci sarebbe voluto un idrante e due autobotti d’acqua per far staccare tutto così. Nel pomeriggio di sabato vidi alla televisione le dimensioni del problema, campi e paesi allagati, strade e ponti scomparsi. Poi nominarono il quartiere Orti di Alessandria, dove c’è la casa di Roberto, provai subito a telefonare, suonava occupato.

Ci sarebbe da scrivere per giorni per narrare anche solo alcune delle piccole avventure vissute insieme a Roberto negli anni dell'adolescenza e della giovinezza, avventure che mi hanno sempre lasciato qualcosa, un insegnamento, un po’ di esperienza in più.

Come la notte passata nei sacchi a pelo addossati alla parete per evitare la pioggia sotto uno strapiombo presso il Colle della Vecchia, chissà qual era la meta?. E la notte sulla pietra inclinata oltre il Colle della Mologna Grande, con una coperta in due sotto un cielo altissimo scintillante di stelle, ad aspettare l'alba per cominciare la caccia alle rane nei laghetti montani. E la salita notturna al monte Bò il tre gennaio del ‘72 per vedere l'alba, le racchette da neve, i ramponi, il vertiginoso canalino ghiacciato da attraversare camminando verso la luna, la neve di farina fino al petto vicino alle baite al Giassit, i dieci gradi sotto zero in punta al Bò diligentemente misurati con termometro a mercurio e c’era un vento oltre i cento all'ora, lo spavento stupefatto quando sulla stretta punta una folata maligna ci spostò tutti e due di peso di vari metri, le foto mosse per l'impossibilità assoluta di tener ferma la fotocamera benché coricati a terra, le barbe bianche di ghiaccio durante la discesa, lo spettacolo andino dei "penitentes" su in Piazza d’Arme.

E ancora dal monte Bò un’altra volta la discesa dalla cresta degli Altari, allucinante viaggio di cinque ore nella vertigine precipitante di prati verticali e pietre incerte che sfidavano la legge di gravità, dopo la notte passata nel piccolo rifugio della vetta. Roberto ed io, soli e slegati, silenti, testimoni l'un l'altro d'una buona prova di sangue freddo e di abilità. Cosa è che spinge gli adolescenti a cimentarsi in simili azzardi mentre anche i camosci ci guardavano ansiosi per la nostra sorte? 

Tante cose, tante avventure e alcune inenarrabili, ma forse necessarie a quell’età.

Dei tanti ragazzi che venivano in “villeggiatura” a Montesinaro Roberto era l'unico a conoscere la montagna, l'unico a capire l'ambiente ben oltre le solite passeggiate sui sentieri battuti che erano il massimo slancio d’avventura e motivo di vanto per tutti gli altri.

Ci si vede di rado, lontananza lavoro e figli rendono meno frequenti le occasioni di incontro, ma appena possiamo andiamo ancora a spasso nei boschi o in montagna, per sentire ancora quell'atmosfera di tanti anni fa, quel guardare il mondo camminando fuori dai sentieri, e scambiarci opinioni e osservazioni leggendo l’ambiente intorno, come sa fare lui, come si legge un libro.

Mia moglie ed io eravamo stati a trovarli la domenica seguente, otto giorni dopo l'alluvione, ci eravamo andati con due auto cariche di cose che pensavamo utili a chi ha avuto la casa allagata.

Cento chilometri in macchina, neanche due ore e si piomba impreparati in un mondo diverso, grezzo e fangoso, fa un effetto particolare.

Come suggerisce il nome l’antico quartiere Orti è lungo la riva del fiume Tanaro leggermente più in basso del resto della città. Tra quelle strade, nei cortili e dentro le case l’acqua era entrata nel volgere di qualche ora fino all’altezza di due o tre metri e lentamente era defluita dopo diversi giorni. La casa di Roberto era raggiungibile solo a piedi, tutto il quartiere Orti era un cantiere fervente di attività nel quale entravano solo macchine da spostamento terra e persone in tuta con stivali ed elmetti e pale e altri attrezzi, ne uscivano solo maschere di fango e stanchezza.

Portammo in quel girone di purgatorio anche un chilo di bignè, sentendoci abbastanza stupidi con in mano il pacchetto rosa in mezzo al fango senza un angolo dove poterlo appoggiare. Ancora oggi Patrizia ci dice che quei bignè fragranti nella loro carta di pasticceria le ricordarono che esisteva ancora un mondo di normalità, di cose buone e gradevoli. Dopo otto giorni passati nel fango al freddo senza corrente elettrica senza riscaldamento con pochi miglioramenti apprezzabili del lavoro spossante, la vista dei bignè le diede nuova forza per continuare. 

Ma chi ancora una volta mi stupì fu Roberto, pareva incredibile vederlo lavorare con ordine e con la solita espressione di tutti i giorni in mezzo a quella fangaia da fine del mondo, in quella città in stato di guerra dove tutta la gente girava con un’aria costernata, mentre il fango non si era ancora seccato sui lampadari. Dove anche i più volenterosi avevano rinunciato a salvare tante delle proprie cose inzuppate d’acqua e di limo, e lui che pensava ai libri antichi e ai vecchi bicchieri e aveva cura di tutto e dirigeva i dubbiosi in mezzo a un pantano mai visto, a un odore sottile di fondo di lago.

Fu solo per le insistenze di sua moglie che mi raccontò, tempo dopo e con poche parole, della drammatica notte in cui il fiume aveva abitato le case fino al primo piano, la notte che lo vide passare attraverso i tetti e i terrazzi, per portarsi a casa appeso al collo un bambino solo e sofferente d'asma, sperando stesse più tranquillo con i suoi bimbi, attraversando come l'uomo ragno le facciate delle case da un balcone all'altro a strapiombo su quell'incubo d'acqua e di buio.

E nella notte il bimbo non stava bene, alle otto del mattino salì su un canotto dei pompieri, a mezzogiorno arrivò finalmente all’ospedale che dista un chilometro. Così era il quartiere Orti di Alessandria.

Solo tanto tempo dopo mi raccontò della corsa in auto a tavoletta per tornare a casa da fuori provincia dopo aver sentito il pericolo col suo fiuto squisito da animale di fratta, mentre gli altri vedendo la prima poca acqua che arrivava per strada pensavano a un tombino otturato. Invece era il Tanaro.

Mi accennò al pomeriggio di paura passato a spostare gli oggetti di casa dal piano terra al primo piano, dopo aver guardato attoniti e impotenti l'acqua torbida che entrava lentamente, apriamo le porte, e l'acqua copriva il pavimento lucido della sala, stacchiamo la corrente prima di rimanere fulminati, e l'acqua entrava in cucina e nei bagni, chiudiamo il gas, in fretta portiamo via i tappeti, le sedie, i cuscini dei divani le cose di cucina i cibi del frigo i mobili piccoli e tutti gli oggetti, e l’acqua che saliva lenta dalle caviglie e poi su, gelida e sporca, fino al petto, togliamo i quadri, che incubo, e ancora su a sfiorare il soffitto e già si pensava di spostare tutto dal primo piano al secondo, e scendeva la notte e pioveva ancora e il terrore si spandeva nel quartiere.

Lo accompagnai quella domenica per le strade intorno a cercare l'auto del lavoro abbandonata vicino a casa il sabato precedente dopo il rapido rientro. Camminammo nel fango alto fino alla caviglia, rimescolato e finissimo che copriva tutto, passammo accanto a barche arenate in mezzo alla città, vedemmo la nuova scuola materna con i disegni dei bimbi ancora appesi al muro sporchi dell'acqua che li aveva superati, vedemmo la carcassa di un cane, le galline affogate, vedemmo un vecchio muro crollato, le cataste di masserizie, le ruspe nei fragili cortili, lo spettacolo sconcertante dei soldati che spalavano una spanna di limo biblico dal campo da calcio, ma anche le facce vive e schizzate di fango dei tantissimi volontari giunti da ogni dove, organizzati e non, che si mettevano a disposizione di una famiglia a caso e facevano di tutto, incuranti del freddo del fango della mancanza di cibo caldo, accettando i molti pericoli possibili di crolli, di fughe di gas, di veleni dispersi. Sentimmo l'odore acre di gasolio e nafta venuti a galla da cisterne aperte, girammo piazze dove erano state portate con le ruspe centinaia di auto affogate. Nella piazza più lontana nella più fangosa trovammo la sua, una Panda bianca della Regione Piemonte, l'aprì, nel bagagliaio c'erano gli scarponi da alpinismo che usava ora per i rilevi in posti difficili, i suoi "Galibier" che riconobbi all'istante con una sensazione amara di nostalgia. L’odore di nafta che li aveva impregnati ce li fece lasciare lì e capii con un senso di impotenza che l'alluvione ti può portare via anche i ricordi.

Poi Roberto prese dal vano del cruscotto, ancora pieno d’acqua e sotto un centimetro di limo finissimo, il quaderno dei rapporti di viaggio, lo strizzò, voltò le pagine fradice, con la matita bagnata scrisse del suo ultimo percorso la data e il luogo, lesse sul contachilometri i chilometri fatti, li annotò, diligentemente, tranquillamente, mentre io lo guardavo incredulo compilare quel libro fradicio pensando che mai nessuno l'avrebbe più aperto e letto, e  il concetto stesso di ufficio caldo con le scrivanie ordinate mi sembrava lontano e improbabile in mezzo a quella mota che imprigionava gli stivali.

Trattenne il libro e i documenti di bordo, buttò il resto nell'abitacolo e chiuse la portiera.

Tornando verso casa mi raccontò dell'apparizione dei soldati, una bella colonna militare passata lungo il viale grande della città, ripresa dalle tv, con un bel generale impettito alto sul cingolato alla testa, sfilarono e non si videro più, ma forse erano quelli che spalavano fango nel campo da calcio.

Non c’è nulla di meglio che le braccia e il cuore dei volontari, dopo un simile evento, per tornare alla normalità.

Sera d’aprile ‘98

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