sabato 3 maggio 2008

Al Pianale '99



All' alpe Pianale salendo per la “Scala”

Domenica 31 maggio 1999

D'improvviso come una sorpresa alle nove di questa mattina mi sono reso conto di avere la giornata libera, e mi è venuta l’idea di andare all’alpe Pianale, a 1890 metri nella selvaggia e solitaria Valdescola.
Parto da Montesinaro alle 10, giunto al torrente, alle Crose,  incontro Riccardo che fa pascolare le mucche nel grande prato a lato della Chiobbia. C’è una manza giovane giovane che vive i suoi primi giorni di pascolo e Riccardo le ha legato una lunga corda al collo di modo che quando questa cerca di allontanarsi la può trattenere, non è che lei voglia scappare ma è sciocca e sperduta nella vastità dei prati liberi e segue chi passa e non capisce ancora i comandi del cane.
Mi fermo a parlare con Riccardo, il margaro che conosco da sempre, accosciato a terra con lui ci raccontiamo brevemente le novità dell’inverno fumandoci una sigaretta di buon trinciato forte. Pochi minuti e poi riparto dopo avergli chiesto informazioni per salire al Pianale passando dalla “Scala” , una via più diretta rispetto al sentiero normale, sul lato opposto del torrente, sconosciuta a tutti ormai. Con poche parole, che al momento mi sembrano oscure, mi tratteggia il percorso.
Ma c’è da fidarsi, Riccardo con suo fratello, quando erano bambini, hanno passato diverse estati su per i ripidissimi canaloni della Valdescola, a pascolare le pecore e anche qualche mucca che immagino imparentata con i camosci. Lui e il fratello giravano scalzi, le scarpe si distruggono su quelle pendenze,  né ci sono pericoli maggiori di essere morsi da vipere, chi va scalzo sa bene dove mette i piedi. Di quei pendii scoscesi e complessi conosce come nessun altro tutto quello che può servire, e in qualche occasione, in aiuto al soccorso alpino, so che l'ha dimostrato.
Un breve saluto e poi mi avvio lentamente nella giornata calda, nel torrente non c’è nessuno, solo un paio di fuoristrada parcheggiati dove finisce la strada sterrata alla confluenza di Chiobbia e Valdescola, sono di quelli che hanno la baita a Baruz.
Sempre camminando di buon passo cerco un alberello di frassino per farmi un bastone, più avanti raccoglierò un ramo già tagliato di betulla, si cammina bene con un bastone, non importa se è improvvisato. Passato il torrente il bosco è rigoglioso di foglie nuove e ancora piccole, le felci si stanno ancora srotolando e non c’è la minima traccia di vento.
Mi innalzo sempre spingendo un po’, come mi succede quando sono solo. All’entrata del prato di Tegge Valdescola c’è un cancelletto di rami  intrecciati che chiude un passaggio obbligato, ci appoggio un fuscello a fare da spia dopo essere passato.
La fontana di Tegge Valdescola, a 1360 metri, non ha acqua, senza fermarmi continuo e trovo i segni rossi sulle pietre del sentiero che porta al Viasco e poi al Pianale. Incontro un asino solitario che mi viene incontro speranzoso, ma non ho nulla da dargli, chissà di chi sarà? Piùi avanti il sentiero attraversa il torrente e continua sull’altro versante, ho sete e fame, ho sudato molto. Mi fermo a bere l’unico succo di frutta che ho e mangio due piccole brioches, mi rimane una tavoletta di cioccolata e poi del pane secco e un po’ muffo che ho portato per lasciarlo ai camosci, ne sbocconcello un po’. 
Ancora pochi minuti poi mi fermo per cercare il sentiero ripensando alle scarne indicazioni di Riccardo : ”...non salire al Viasco sopra dove ci sono i resti delle baite, scendi verso il torrente, c’è un piano…. “  Già ma dove? qui sotto c'è un tratto quasi piano lungo il torrente, ma è a questo che alludeva Riccardo? o più avanti?… Prima di scendere nel greto e attraversare il torrente prendo il binocolo e perlustro il versante opposto.  E’ decisamente impervio quasi verticale… dunque : “Ci sono due canali uno che viene giù dal Bergamasco e uno dagli Altari “ ….
Valter, il figlio del margaro e mio storico amico, m’aveva detto che lui stesso aveva segnato, anni prima, con la vernice rossa la partenza de "la Scala”, inutilmente col binocolo cerco segni sulle pietre.. ma è tutto ripidissimo… c’è qualche traccia in traverso come una cengia che potrebbe essere una traccia di sentiero…ma si perde nelle paretine… niente da fare. Decido che se non trovo di meglio potrei salire dove c’è una specie di parete erbosa larga venti metri, ripidissima ma che sembra percorribile, anche se col binocolo è difficile valutare le pendenze visto che si vede tutto piatto e senza prospettiva.
Scendo quindi tra gli arbusti nel piccolo ripiano a fianco del torrente, lo attraverso stando attento ai buchi sul residuo della valanga di neve che lo copre e risalgo un poco l’altra sponda. Ed ecco davanti a me in alto su una paretina verticale un grosso cerchio rosso che segna l’attacco della “scala”,  solo ora ricordo che Valter me lo aveva detto (tre anni fa)  che aveva fatto un cerchio in modo che fosse visibile da lontano.
Comincio quindi a salire in mezzo al “metti” , più correttamente chiamato "siun", i grossi ciuffi d’erba dalla sezione tonda, resistenti ma molto scivolosi, è davvero ripidissimo qui.  E’ proprio questo il punto che avevo scelto guardando col binocolo, mi complimento con me stesso. Salgo in fretta, dopo un po’ guardo in basso e la lingua di neve è già cinquanta metri più giù, non per nulla la chiamano “la scala”.
Poi la pendenza diminuisce ma scompaiono le tracce di sentiero e pure i segni rossi sulle pietre. Ripenso alle parole di Riccardo:  “C’è un ciapei (una pietraia) devi traversarla in diagonale salendo, bada che c’è un sentiero tra i massi della pietraia.“
Attraverso un canalino pieno di neve poi salgo sulla pietraia, non ci sono le marche e nonostante che vagabondi in su e in giù non vedo tracce di sentiero né omini di pietre, ma non importa, da qui ho idea di dov’è  il Pianale, devo solo trovare il punto buono per traversare un canale ripidissimo dal  quale scende una cascata scrosciante.
Alla fine della pietraia, quasi al suo apice, ritrovo un paio di marche di vernice che mi guidano ad attraversare su una larga cengia il canale con acqua che scende, arrivo in un prato ripido e lo risalgo un po’ ed ecco le baite del Pianale, ci sbuco appena sotto,  proprio come diceva Riccardo.  Mi ha detto pochissimo, era l’essenziale.
Faccio il giro delle baite, sono più di quante ricordassi, è da venti anni almeno che non salgo quassù, sono otto o dieci le baite, nessuna ha il tetto completamente integro, nessuna ha la porta, rimangono tracce di assi qua e là, una pentola, qualche residuo di attrezzo, un’aria d’avamposto di frontiera abbandonato. Grandi muraglioni spartineve a monte proteggono le baite dalle valanghe invernali. Fino a trentatré anni fa un uomo abitava qui tutte le estati con due cani due asini e più di quattrocento pecore. Era Battista il pastore, eravamo amici. 
Mi sistemo su una pietra piatta fuori da una baita, mi spoglio degli abiti sudati, fa caldo e non c’è un filo di vento. Su verso la cima del Monte Bo salgono ripidi i canaloni, c’è un po’ di nuvolaglia solo verso la punta, ma il cielo è libero verso le cime del Manzo e del Cravile.
La montagna è bellissima in questa stagione, nuda con l’erba giovane giovane che sta crescendo, la terra lavorata dal gelo è morbida e soffice,  i profumi sono nuovi e tenui e non c’è nessuno in giro quindi gli animali sono tranquilli ed è più probabile riuscire a vederli. Tengo d’occhio alcune tane di marmotta che ho localizzato salendo il prato, ma non ne apparirà nessuna.
Mentre sbocconcello la cioccolata un rumore non molto lontano mi sorprende: un camoscio sta scendendo, è appena montato su un lungo canalone di neve e ora scende come giocando, dando cornate al vento e ponendosi al traverso a grandi balzi ora a destra ora a manca, ogni balzo qualche metro di scivolata, sembra un ragazzo che gioca. Una rappresentazione esplosiva di forza e vitalità.
Lo osservo a lungo col binocolo, è un grosso maschio. Dopo un po’, cento metri più giù, si corica su un pietrone piatto e si gode il sole, come me. Per lui è un giorno come tanti,  per me è un giorno speciale dopo tutti i mesi di lavoro e di auto e di ambienti chiusi e di poca luce e di peggio ancora… oggi c’è luce, aria pulita, c’è caldo, c’è montagna e animali e  piante e tranquillità e quell’energia e quell’eccitazione che ti mette in corpo la primavera.
Il camoscio è ancora lì quando, dopo più di mezz’ora, comincio la discesa. Lascio un po’ di pane in vista sui sassi, chissà chi se li mangerà? Durante la discesa cerco e finalmente scopro il sentiero nella pietraia citato da Riccardo, è proprio netto e ben fatto, quasi una trincea tra i grossi massi. Corre tutto nella parte alta della pietraia, ecco perché non l’avevo incontrato prima salendo, cerco di mandare a mente il punto dove comincia per poterlo ritrovare in futuro poi continuo la discesa.  Scendo e sono stanco, un po’ disidratato per aver sudato molto e bevuto solo poca acqua di fusione che è priva di sali e ben poco adatta a dissetare. A Tegge Valdescola ritrovo il cancelletto sempre tenuto chiuso dal mio fuscello di poche ore fa, quindi non è passato nessuno dopo di me.
Poco oltre dove ricomincia la vegetazione e il sentiero entra in un faggeto sento un rumore più avanti, mi fermo e vedo due camosci, la madre ed il piccolo dell’anno prima che mi hanno sentito e visto ma si fermano a brucare ramoscelli a quindici metri da me. Immobile li osservo mentre pian piano si allontanano mimetizzandosi nel colore delle foglie secche del bosco.
Riprendo poi la discesa e rallento molto il passo e mi guardo intorno più che posso, è presto, è bello stare quassù,  e non ho voglia di tornare a casa.

Ponderano, notte d’estate 1999

Nessun commento: