sabato 3 maggio 2008

Verso il Maccagno

Verso il Maccagno

Con Walter ed il pastore Battista, verso il Maccagno

 

Avevo da poco compiuto tredici anni ed ero a Montesinaro in un agosto di metà anni '60 quando Walter, mio grande amico di sempre, mi chiese se volessi andare con lui ad accompagnare Battista a “muovere” il gregge dalla Valdescola all’alpe Maccagno, in Valsesia. Naturalmente accettai con gioia.

Battista era un pastore che tutte le estati portava il suo gregge all’alpe Pianale, a 1890 metri nella solitaria e selvaggia Valdescola, un vallone impervio che scende dal monte Bo verso sud ovest.

All’Alpe Pianale si arriva in circa due ore da Montesinaro, per un sentiero poco battuto nella parte iniziale e un poco problematico nella parte alta, frequentato solo, già allora, dal pastore e da qualche cacciatore. L’Alpe è posta al centro del vallone, ma molto in alto dove le pendenze sono quasi proibitive e consiste in sei o sette baite a valle di una serie di massi che le riparano dalle slavine invernali. Chiamarle baite è certamente esagerato in quanto si tratta di monolocali molto bassi, il tetto è di “lose” pietre piatte ricavate sul posto, all’interno c’è (c’era) un angolo per il fuoco, un tavolo basso ed un giaciglio di assi.

In quegli anni dall’inizio di luglio alla seconda metà di agosto il pastore viveva lì, da solo, con due cani due asini e più di 400 pecore che si disperdevano per pascolare nei canaloni più impervi, fino a raggiungere a volte le creste o anche la vetta del Bò, del Manzo e del Cravile. Posti dove anche i camosci vanno di rado.

Ogni due settimane Battista scendeva a Montesinaro con l’asino per fare le provviste, di solito scendeva al mattino del sabato, si fermava la sera al bar o a casa di margari suoi conoscenti e poi nella notte o la domenica mattina risaliva all’alpeggio. Battista era un bell’uomo di circa trentacinque anni ma ne dimostrava un po’ di più, aveva una voce profonda baritonale, camminava sempre con un bastone di frassino, bianco lungo e diritto che gli arrivava oltre la spalla, col quale accompagnava il passo ampio e cadenzato, quasi maestoso, i suoi due cani erano sempre due passi dietro a lui. Nonostante la differenza di età si può dire che fosse nostro amico, era piacevole starlo ad ascoltare e sapeva tante cose.

Battista era molto considerato tra i margari anche perché esperto nella cura delle pecore e mucche e a volte si rivolgevano a lui prima di chiamare il veterinario. Notevoli i suoi due cani (ricordo che uno si chiamava Franco l’altra, forse, Ligèra) erano bianchi e grigi, almeno uno di loro aveva gli occhi bianchi, erano silenziosi e riservati ed eccezionali nel loro lavoro. Radunare le greggi in montagna su terreni scoscesi e difficili è un lavoro delicato, occorre procedere con calma per non spaventare le pecore che rischierebbero di cadere, ma soprattutto la distanza da percorrere dal momento dell’ordine fin quando viene raggiunto il gruppo di pecore può essere molta. I cani si trovavano quindi ad eseguire da soli un ordine ricevuto vari minuti prima. L’ordine di Battista era impartito a bassa voce e rinforzato a volte con un breve fischio quando i cani già erano lontani, i cani non correvano quasi mai come chi sa che non deve disperdere energie né prendere rischi. Avevano mascelle formidabili in grado di spezzare le durissime ossa lunghe degli agnelli “come grissini” diceva Battista, a volte riuscivano a prendere una marmotta ed era una festa.

Da un paio d’anni conoscevo e frequentavo Walter, che era di poco più grande di me, e la sua cordiale e accogliente famiglia, eravamo grandi amici. A Montesinaro io ero un villeggiante anomalo, anziché gironzolare in paese come gli altri ragazzi io ero sempre con Walter a far pascolare ed accudire alla sua mandria, c’erano anche due maiali le galline ed un cavallo, e l’indimenticabile Leda, il primo cane pastore che ho conosciuto. Per un ragazzino di paese come me era un mondo nuovo ed estremamente interessante. C’era la mungitura, la pulizia delle stalle, la preparazione e distribuzione del latte, c’erano le vacche (ognuna aveva un nome) da portare al pascolo, la nascita dei vitelli, c’era da fare il fieno. Imparavo tante cose; avevo capito che i margari e ancor più i pastori, hanno una tempra ben maggiore di noi “cittadini”.

Per cui l’invito di Walter a partecipare a quella transumanza mi rese orgoglioso, avevo allora 13 anni e la chiamata a queste fasi importanti della vita dei pastori mi fece sentire accettato come uno di loro, mi pareva di aver superato un esame.

L’appuntamento con il pastore era per le sette del mattino alla “Ciobia dal deir” (Pian degli Agnelli sulle cartine), nella vallata dove scorre la Chiobbia, a un’ora da Montesinaro.

Partendo dal Pianale già il giorno prima Battista aveva portato al Pian degli Agnelli le pecore e gli asini carichi con tutti i suoi “bagagli”, teli, coperte, attrezzature per la cucina, derrate alimentari, medicinali, attrezzi… Non so per quali sentieri abbia fatto passare il gregge, e ancor più gli asini carichi di tutto, fino a raggiungere il Pian degli Agnelli, tra le due valli c’è una cresta impressionante.

Alle sei del mattino Walter passò a chiamarmi a casa a Montesinaro, lui arrivava da Piedicavallo, alle sette eravamo all’appuntamento, c’erano le pecore e gli asini, Battista arrivò verso le otto dicendo che gli mancavano sei pecore. Facemmo insieme una piccola colazione poi lui ripartì verso la cresta e verso il monte Bò per un’altra perlustrazione e noi rimanemmo vicino al gregge con il compito di riprendere gli asini che pascolavano nei dintorni.

Battista partì lentamente seguito dai cani, col suo passo cadenzato determinato e tranquillo in mezzo a massi instabili e rododendri, senza sforzo apparente nonostante la forte pendenza e l’assenza di sentiero, saliva in direzione della cresta degli Altari. Più tardi lo vedemmo camminare, poco più che un puntino scuro stagliato contro il cielo, sulla cresta altissima sopra di noi. Ogni tanto un raggio di luce perforava la nera silhouette rivelando l’ampiezza del suo passo, i cani lo seguivano, anche loro due nere ombre, pochi passi indietro. Certe immagini si stampano per sempre nella memoria.

Tornò per le undici e non aveva trovato le pecore, ma decise comunque di partire, caricammo gli asini. Un paio di agnellini troppo piccoli per camminare vennero messi nelle tasche del basto, ficcati dentro come seduti. Sporgevano solo le zampine davanti il collo e la testa; imparai che bisogna metterli con il muso che guarda all'indietro perché se l'asino s'infilasse sotto le piante i rami non rischierebbero di far male ai piccoli.

Ancora una volta contò le pecore facendole passare in un’apertura tra due muretti, le contò dando ad ognuna un colpetto col bastone mentre passavano, erano 412.

Lentamente, lui davanti conducendo gli asini, noi dietro ed i cani sui lati, si formò la lunga teoria di pecore montoni ed agnelli. A mezzogiorno giungemmo all’Alpe Finestre e qui il gregge si fermò per via del caldo, le pecore non vollero continuare, si disposero tutte in gruppo ognuna con la testa sotto la pancia delle vicine. Rimasi impressionato dalla loro estrema cocciutaggine, anche aizzando i cani non ci fu modo di rimetterle in movimento, la pecora morsa dal cane faceva qualche passo indietro per poi ficcare subito la testa sotto le altre. Si vedevano solo schiene ed occupavano pochissimo spazio, se non le avessimo contate poco prima avrei detto che erano ben meno di cento.

Approfittammo della sosta per pranzare chiacchierando con Edile, il margaro di Alpe Finestre, e la sua famiglia davanti alla baita. Ricordo la graziosa visione della sua figlioletta dodicenne che usciva nel sole dal buio della baita con il grembiule allacciato ed il fazzoletto in testa, bella con gli occhi vivissimi ed i colori accesi dall’aria di montagna, mi rimase nella mente per giorni e giorni anzi, sebbene con altra valenza, c’è ancora.

Passata l’ora calda ripartimmo e di nuovo si distese la fila di pecore, davanti le più ardite, i montoni a metà fila erano i più indisciplinati poi alla fine le meno forti gli agnelli piccoli e le claudicanti.

Giungemmo così al colle del Croso, 1943 metri, e da lì per uno stretto sentiero in mezzo alla vegetazione scendemmo al Toso in Valsesia dove scorre il torrente Sorba che porta molto più a valle al paesino di Rassa in Valsesia. Era quasi sera e Battista decise che avremmo dormito lì.

Il pastore portò gli agnellini che erano sugli asini alle rispettive madri ed uno lo allattò con un ciuccio fissato ad un bottiglione pieno di latte, Walter tagliò con l’accetta alcuni grossi bastoni che usammo, appoggiati a treppiede e legati in alto, per appendere la pentola. Io cercai legna secca e accesi il fuoco.

Mentre veniva buio cenammo con una minestra calda un po’ di formaggio e della “bernia” cioè dei salami di pecora fatti da Battista su al Pianale, salami molto asciutti e magrissimi, scuri, affumicati con legna di rododendro per farli asciugare e poterli conservare a lungo. Li tagliavamo con l’opinel a fette sottilissime per poterli masticare e gustare meglio, avevano un gusto particolare e buono. Non ricordo cosa mangiarono i cani, pane secco di certo, ma non so cos’altro.

Intanto Battista aveva preparato il “paiun”, il letto formato con alcuni teli e coperte militari stesi a terra e con un paio di coperte fatte da velli di agnello cuciti insieme, caldissime. Il letto, nel quale dormimmo comodamente in tre affiancati, era poi coperto da un ultimo telone militare che copriva anche la testa.

Ricordo come fosse ora le sensazioni di quel momento: l’odore del fuoco da campo che mi era rimasto sulle mani, l’odore dei teli militari e delle coperte di vello, il tepore che ne scaturiva dopo pochi minuti, il rumore del torrente a dieci metri di distanza, il belare di qualche agnello, la campanella al collo dell’asino che pascolava un po’ lontano. Poi, scostando il telo che copriva il volto, l’aria gelida della notte che scendeva rasoterra il vallone come l’acqua del torrente; e il cielo! Il Cielo! l’incredibile cielo stellato che sembrava vivo e pulsante con tutte le stelle a migliaia che brillavano insieme come mai avevo visto. “Ricordati di tutto questo” pensavo, ed in effetti ho ricordato.

Walter mi disse il giorno dopo che nella notte si svegliò e si stupì che mancasse Battista e pensò che fosse andato a trovare la Maria, una margara che aveva la baita più a valle… insomma, le relazioni sociali sono importanti, l'assenza era giustificata.

Al mattino sveglia alle cinque, un freddo pungente, accendemmo il fuoco per scaldare il caffè ed intanto recuperammo gli asini che erano sempre a zonzo, di nuovo un po’ di latte all’agnellino con la mamma svogliata, caricammo tutto sugli asini e via verso il Maccagno.

Attraversammo il torrente e poi risalimmo il vallone del Sorba, le pecore camminavano sempre lentamente, dopo qualche ora arrivammo all’alpe Lamaccia un piccolo laghetto alpino, sulle sponde paludose c’erano i tipici fiori di questi laghetti: gli eriofori, insomma i piumini. Poi arrivammo all’alpe Prato, uno stupefacente pianoro di quasi mezzo chilometro di diametro perfettamente regolare e con l’erba alta e bella, chiuso in un anfiteatro circolare di montagne. Intagliata nel prato scorreva serpeggiando una roggia dall’incredibile sezione quadrata, con il fondo di ghiaia fine e pulita ed un’acqua di cristallo.

Walter ed io eravamo la retroguardia, chiacchierando ci gustavamo l’ambiente, in effetti questi non sono sentirei molto battuti, anche in piena estate è rarissimo che passi qualcuno in quanto si è già a diverse ore di cammino da qualunque paese e fa un effetto strano trovarsi così lontani da case e strade. Uno dei cani stava sempre vicino a noi, ma non si sognava neanche di eseguire i nostri ordini quando qualche capo si staccava dalla fila per andare a pascolare fuori dal sentiero. Però prima o poi il cane ci andava da solo a recuperare le pecore sparse. Battista era sempre davanti, lontano.

E poi ancora su verso il colle del Loo, 2452 metri, con il suo caratteristico piccolo nevaio. Oltre il colle scomparvero i rododendri e anche l’erba lasciando il posto a licheni e muschi sul terreno umido e sassoso. Ecco si aprì il vastissimo Pian del Loo, un enorme catino remoto e dall'aspetto quasi lunare che digrada verso la valle d’Aosta.

Qui la vista si perde nelle grandi distanze e lo spirito si solleva e pare di essere in un deserto di montagna, non si vedono tracce umane né baite né armenti né sentieri né nulla di antropico. Le creste che chiudono in lontananza questo enorme catino paiono basse per cui si ha la sensazione di essere arrivati e di non dover più salire.

Sulla destra ecco il colle del Maccagno, da qui non pare granché, ma poi fu duro superarlo, pian piano ci avvicinammo attraverso il pianoro fino alla base del colle e per fortuna il sentiero, che qui è franoso, era invece abbastanza a posto e riuscimmo a passare senza dover scaricare gli asini nei punti più ripidi.

Mentre salivamo un gruppo di capre dall’aria selvaggia passava poco sopra di noi su dei pinnacoli di pietra rischiando di farci cadere dei sassi addosso. Saltavano con la massima disinvoltura da un pinnacolo all’altro, da rimanere allibiti. Ricordo molto bene che c’era un grosso caprone nero, diabolico, con la barba larga come una mano e lunga più di mezzo metro. Mi guardava dall’alto con quelle pupille oblunghe ed inquietanti.

A risalire il colle impiegammo più di mezz’ora e da lassù Walter ed io ci aspettavamo di vedere l’Alpe Maccagno che sapevamo molto bello; invece, l’alpe è molto più in basso e non era in vista.

Era mezzogiorno e ci fermammo tra grandi massi a mangiare nel sole caldo. Il nostro compito era finito lì, lasciammo a Battista le scatolette e quel poco di roba da mangiare che avevamo e poi lo salutammo con un po’ di nostalgia aspettando di rivederlo l’anno seguente di nuovo a Montesinaro. Ogni commiato porta in sé il germe dell’emozione, ed è fertile il terreno della montagna. Walter ed io prendemmo la strada del ritorno, scendemmo dal colle, attraversammo il grande Pian del Loo fino al colle Lazoney. Prima di arrivare al colle della Mologna Grande, passando, deviammo a sinistra per andare a vedere se c'erano trote nel piccolo, ma molto molto bello lago Zuckie, ci dissetammo alla Fontana dell'Asino, poi dal colle giù al Rifugio Rivetti e da lì un’ora e mezza ancora e arrivammo a Piedicavallo, senza fretta, ma guarda caso giusto per cena.



Ponderano, dicembre ’98, notte

1 commento:

Unknown ha detto...

Bellissimo racconto. Ma Waltef è Walter Piaezza figlio della Prosperina e del Riccardo? Perché più volte mi ha racvontato che accompagnava Battista con le pecore