Api
Nella parte a monte del giardino, a Ponderano, c’è sempre stata una fila di arnie che papà allevava con cura amorevole. Facevano parte della famiglia, come il cane ed il gatto.
Erano arnie di legno con il tettuccio di lamiera, verniciate di colori vari
(arnie a favo mobile Dadant-Blatt). Un giorno papà mi disse che nel 1952, mio anno di nascita, un'arnia produsse da sola circa cento chili di miele! ed il ricordo più lontano che ho, benché confuso, è di quando mi punsero molte api tutte insieme, avevo circa due anni. Successe un giorno che eravamo in giardino, la mamma mio fratello ed io, mentre mamma badava all'orto io giocavo gironzolando qua e là. Ricordo che mio fratello, di poco maggiore di me, mi porse un bastoncino e mi disse di stuzzicare le api che sostavano o transitavano numerose davanti alla porticina di un alveare.
Né lui né io sapevamo il prezzo di un simile gioco, fatto sta che in breve mi trovai avvolto da un turbine di api arrabbiatissime che presero a pungermi sul volto, sui capelli e sulle mani.
Mamma accorse appena mi sentì piangere e mi portò via di peso. Poco dopo ero in braccio a lei con la testa sotto il rubinetto di un lavandino mentre mi toglieva i pungiglioni uno ad uno, l'acqua fredda alleviava un po' il dolore ma mi pareva di soffocare. Venne il medico, dovevo avere la testa come un pallone, disse che non c'era altro da fare, ma era tranquillo che me la sarei cavata. Per fortuna nessuna mi era entrata in gola e respiravo liberamente. Mamma disse che erano almeno venti punture! Io non credo così tante.
Nonostante questa brusca iniziazione per me le api sono sempre state una cosa bellissima e, fin quando papà le ha avute, mi hanno sempre dato molto.
Intanto avere un papà apicoltore è già una soddisfazione per un bambino, l'apicoltore è un po' un eroe che non teme il dolore dei pungiglioni, produce l’ottimo miele apprezzato da tutti, ed è visto come un druido che conosce il complesso e affascinante mondo delle api.
A scuola, alle elementari, ero uno degli allievi più interessanti agli occhi del Maestro (la maiuscola credo proprio che se la meriti) anche per via delle api. Un giorno, su richiesta sua, portai a scuola un'ape, un fuco ed una regina che appuntammo su un foglio con uno spillo ed esponemmo in bacheca. Non si parlava ancora di ecologia, ma il Maestro già allora ci trasmetteva fuori programma scolastico il germe dell’amore per la Natura e qualche nozione di zoologia e botanica. Una volta, un pomeriggio di primavera, tutta la classe con il Maestro venne nel mio giardino a visitare l'apiario, la mamma preparò dei bicchieri di acqua limone e zucchero, fu per tutti un bel pomeriggio.
Papà aveva cominciato ad allevare le api già prima della guerra, intorno agli anni 1930-35. L’apiario non è mai stato molto numeroso, le arnie erano sempre circa dieci o quindici.
Ma poche o tante le api avevano una certa importanza in famiglia, basta pensare che due o tre volte l’anno richiedevano la partecipazione di tutti.
Due volte l’anno c’era la smielatura, una a casa a fine maggio ed una a Montesinaro, ad agosto. Poi c’erano i trasferimenti, di notte, per portare le api su a Montesinaro a giugno e poi a di nuovo a casa a fine agosto. In queste occasioni si era tutti coinvolti, c’era qualcosa da fare per tutti.
Mamma e mio fratello, essendo un po’ sensibili alle punture delle api evitavano di avvicinarsi alle arnie, questo in linea generale, ma se necessario nessuno si negava.
Papà ed io eravamo sempre in prima linea, non avevamo problemi a farci pungere, quasi sempre a fine giornata dopo la smielatura contavamo una ventina di punture, forse avevo anche un po’ di febbre, ma tutto finiva lì.
Devo dire che rispetto agli apicoltori che si vedono in tv papà ed io eravamo molto meno protetti, solo nei momenti più a rischio ci mettevamo la “maschera” (una reticella nera montata su un cappello, la tesa del cappello teneva la rete discosta dal volto, ed era chiusa al collo da un elastico), ma gli avambracci e le mani erano sempre scoperti. Spesso avevo anche i pantaloni corti o comunque mai chiusi alla caviglia, per non negarmi l’emozione di sentire un’ape che zampetta su verso il ginocchio e poi verso l’inguine sotto i pantaloni. La difesa migliore era l’affumicatore, meraviglioso attrezzo che magicamente tranquillizza le api.
D'inverno le arnie erano poste in giardino nella zona a monte ben esposte al sole, tutte in fila. Delle varie arnie, che papà chiamava “famiglie”, ce n'erano sempre di più forti e più deboli, cioè con tante o poche api, e papà era sempre attento e preoccupato per le deboli. La regola, che vale per tutti gli allevamenti, è quella di avere famiglie tutte uguali, un’arnia molto forte o molto debole non danno garanzie di durata e possono portare problemi, come per esempio il saccheggio, che è una cosa spaventosa.
Due parole sul saccheggio: si tratta dell’attacco di una o più famiglie, in genere appartenenti ad un altro apiario della zona, diretto contro un’arnia ‘debole’ al fine di rubare il miele ed il polline. In genere vengono attaccate le arnie ai lati dell’apiario, una posizione meno difendibile, è per questo che le api delle arnie ai lati sono sempre un po’ nervosette, pungono più volentieri. Le attaccanti arrivano decise e molto aggressive, mordono le api di casa fino a mutilarle ed ucciderle, entrano nell’arnia, spaccano a morsi le celle del miele e si succhiano tutto il miele che possono, poi tornano alla loro arnia a depositare il miele rubato, e ritornano all’attacco. L’arnia attaccata naturalmente si difende, ma in genere soccombe davanti alla ferocia degli invasori, se poi anche la regina viene raggiunta e uccisa, allora è finita. Se non viene fermato nelle prime ore il saccheggio va poi avanti per giorni e giorni, fino allo scempio totale dell’arnia. È triste e impressionante aprire il melario e vedere la distruzione, api morte e smembrate, pezzi di cera staccati, celle divelte.
Qualche volta avveniva un inizio di saccheggio, allora papà tentava di interromperlo con alcune manovre speciali, per esempio restringeva la porticina d’entrata affinché le api di casa potessero contrastare meglio le assalitrici. Poi spargeva del borotalco profumato intorno all’arnia ed anche un po’ dentro il nido ed i melari, al duplice scopo di mascherare il profumo del miele e di confondere gli odori delle api stesse. Di solito funzionava.
Dagli anni Sessanta in poi si era diffusa tra gli apicoltori l’abitudine di comprare le regine da un allevamento specializzato, in Emilia. Le api che nascevano erano un po’ più grandi delle nostrane (almeno così mi sembra di ricordare) e un po’ più docili, meno aggressive. Pareri recenti di vecchi apicoltori condannano questa scelta fatta solo per aumentare la produzione. Dicono che così si è persa la grande vitalità e resistenza alle avversità delle antiche api nostrane. Anche se la sottospecie era sempre la stessa: Apis mellifera ligustica.
Papà scriveva alla ditta di Bologna, pagava con un vaglia postale e poi arrivavano per posta dei pacchettini con dentro le regine. Davvero! per posta ordinaria, era una scatoletta di legno (4x2x15 cm circa) chiusa da un lato lungo con una reticella di metallo e dentro si vedevano sette-otto api ed una regina con una macchia di lacca colorata sul dorso, ogni anno cambiavano il colore, in modo da sapere l’età della regina anche negli anni successivi. Uno dei lati della scatoletta era pieno di cibo che le api rimasticavano e davano alla regina, dall’altro lato c’era un piccolo foro chiuso da un po’ di cera. Bastava mettere la scatoletta nel nido, la parte bassa dell’arnia senza regina (se necessario si uccideva la vecchia regina) e dopo uno o due giorni il diaframma di cera veniva demolito, dall’interno o dall’esterno, e la nuova regina prendeva possesso dell’alveare. Intanto si erano amalgamati gli odori dell’arnia e delle nuove api.
La “forza” di un’arnia è data principalmente dalla vitalità della sua regina. Una buona regina depone molte, moltissime uova a cominciare da inizio primavera, in modo che a maggio quando c’è la fioritura dell’acacia le api siano molto numerose per garantire un buon raccolto. Le regine che deponevano poco venivano sostituite con una regina giovane, acquistata, come sopra detto, o prelevata da un’altra arnia o sciame. Per stimolare la produzione di api, quindi di miele, papà cominciava già a fine febbraio o marzo a nutrire le arnie con una soluzione satura di acqua e zucchero e un po’ di miele. L’arnia e la regina vedendo arrivare nutrimento in quantità erano stimolate ad iniziare presto la deposizione.
Le arnie in giardino erano tenute in osservazione tutto l'anno, per me anche da bambino erano un oggetto di grande interesse. Passavo ore intere accoccolato tra due arnie per osservare da vicino le api che partivano rapide in volo per andare a bottinare, cioè raccogliere il nettare. Più interessanti erano quelle in arrivo, con la pancia gonfia di nettare oppure con le palline di polline appese alle zampette posteriori, gialle, arancioni, rosse. Guardando bene si vedeva che arrivavano stanche, pesanti, si posavano ed entravano subito nella porticina e dentro l’arnia. Con un po’ d’attenzione è facile distinguere le api giovani da quelle più vecchie, queste ultime sono un po’ più scure, hanno meno peluria su zampe e torace e le ali sono consumate, scheggiate ai margini. La vita di una bottinatrice è dura e pericolosa. Poi c'erano i maschi, i fuchi, anche loro si fermavano poco sulla porticina, dovevo essere svelto a prenderli con due dita. Con i fuchi ci si poteva giocare, sono senza pungiglione. Ce n'erano tanti in tarda primavera, poi calavano molto nell'estate per sparire del tutto già a metà agosto, la loro esistenza serve solo per l'accoppiamento durante il volo nuziale della regina. Questo gioco di osservare le api e cacciare i fuchi ogni tanto mi costava caro, era abbastanza frequente che un'ape mi pungesse, quasi sempre sulla palpebra sotto il sopracciglio o sotto l'occhio, credo puntassero al luccichio dell'occhio. Quando succedeva andavo nel garage, lì vicino, e guardando nello specchietto della Fiat 600, mi toglievo il pungiglione e tornavo al mio gioco. Più di una volta un'altra ape fece il bis... andavo a scuola con un bell'occhio quasi chiuso.
Un po’ di informazioni sulle api.
Durante la loro vita le api cambiano più volte ruolo, ed è stupefacente il fatto che in poche ore passano da un ruolo all’altro, senza particolari istruzioni o “affiancamento” come facciamo noi nel mondo del lavoro.
Il primo ruolo ricoperto dall’ape appena nata è quello di pulitrice, sin da subito eliminano rifiuti tenendo pulito l’alveare. Dopo pochi giorni passano al ruolo di cuoche e nutrici: in questa fase hanno il compito di produrre cibo per le larve grazie alle loro speciali ghiandole e passarlo alle larve da bocca a bocca. A questo punto, trascorsi circa 10-15 giorni, le api riescono a fabbricare il miele ricevendo il nettare dalle api bottinatrici. Fase successiva è la costruzione, durante la quale le api operaie si dedicano per l’appunto alla costruzione delle celle di cera, caratterizzate dalla perfetta forma esagonale. L’esagono regolare è la figura geometrica che permette di coprire il piano senza lasciare buchi, con il massimo risparmio di cera e, grazie ai lati brevi, garantisce anche una buona solidità.
Dopo 20 giorni di vita, le api operaie si mettono a difesa dell’alveare, in un ruolo che potremmo definire militare, una mansione che dura circa due giorni. Dopo questo breve compito, le api passano al ruolo di bottinatrici, andando in cerca di pollini e piante con fiori che producono nettare, imparando subito a orientarsi nell’ambiente esterno. Tutto questo ha del miracoloso, ed i meccanismi che usano per orientarsi sono solo parzialmente noti. Si sa che quando una bottinatrice torna in alveare dopo aver scoperto una nuova fonte di nettare lo comunica alle altre facendo una strana danza a forma di otto e contemporaneamente “scodinzola” con l’addome. Con questo bizzarro linguaggio (che noi non sappiamo decifrare) un’ape riesce a comunicare distanza, direzione, tipo e quantità di nettare. La base di tutto è la posizione del sole, ma il bello è che funziona anche se è nuvolo: grazie alla sensibilità a certi tipi di radiazioni polarizzate loro sanno comunque dove è il sole. La loro prima uscita a bottinare è davvero inspiegabile e stupefacente, un esserino che prima non aveva mai visto l’ambiente esterno se ne esce, si orienta con il sole, si allontana di chilometri, trova i fiori giusti e sa ritornare alla sua arnia senza errori.
La distanza massima alla quale si spingono si stima sia poco oltre i tre chilometri, stupefacente per un animale che pesa un decigrammo, e poi deve anche tornare, e tornare carico! Un conteggio preciso non è possibile ma si pensa che per fare un kg di miele siano necessari più di 60000 viaggi.
La durata di vita di un’ape è molto variabile, può essere di meno di un mese, d’estate quando c’è molto lavoro e molti rischi, oppure molti mesi, per esempio dalla tarda estate fino a primavera avanzata. I fuchi vivono pochi mesi d’estate, mangiano “a sbafo”, ma nella tarda estate le api non permettono loro di entrare nell’arnia. La regina invece può vivere anche cinque anni, e anche più. Ma quando una regina diventa vecchia comincia a deporre meno uova, e le api se ne accorgono. Cercano allora di far nascere una nuova regina, in questo modo: costruiscono in un lato di un favo una grossa cella più o meno ovale, come una fragola, e ci mettono un uovo, uno qualunque di quelli deposti dalla regina. Poi nutrono la larva con un’alimentazione speciale, la regina che ne nascerà sarà subito accudita dalle api con grande attenzione. Poi dopo qualche giorno farà il volo nuziale durante il quale si accoppierà più volte con dei maschi che moriranno subito dopo. Sarà l’unico accoppiamento della sua esistenza, conserverà tutto lo sperma e lo userà per il resto della vita.
Dopodiché comincerà a deporre uova, fino a 2000-3000 uova al giorno per tutta la primavera e l’estate per diversi anni. La vecchia regina, intanto, avrà cercato una nuova “casa” portandosi dietro, con uno sciame, circa metà delle api dell’arnia, succede sempre nella tarda primavera.
Torno ai miei ricordi di gioventù raccontando qualcosa sugli sciami.
Da inizio maggio a metà giugno, circa, c’era il periodo delle sciamature, alcune famiglie decidevano di sciamare, succedeva in genere nelle ore centrali del giorno, davanti alla fila di arnie si formava in pochi minuti una nuvola di api in volo, il rumore si poteva sentire da decine di metri di distanza. Migliaia di api che ronzavano girando a pochi metri di altezza. Quasi sempre si posavano poco lontano dall’apiario, appese a qualche fronda a pochi metri di altezza. È questa una situazione provvisoria che può durare qualche giorno finché le esploratrici non trovano un posto adatto dove vivere. Il cavo di un albero, una cavità dentro un muro e posti simili.
Appena ci accorgevamo dello sciame ci si preparava per andarlo a prendere, non bisognava aspettare troppo. Papà aveva elaborato la sua tecnica, secondo me molto funzionale: serviva un portasciami ( una piccola arnia, con dentro alcuni favi, anche vuoti ), e un grosso sacco di plastica, tipo quelli usati per i concimi o il sale per le strade. Il sacco veniva tagliato in diagonale in modo da avere una “bocca” più ampia.
Poi ci si avvicinava allo sciame, in genere con una scala appoggiata in modo precario alle fronde, e con un paio di cesoie da giardiniere si tagliavano i rametti che sporgevano oltre la massa d’api. In questi momenti le api ronzano molto ma non sono per nulla aggressive, si può mettere una mano intera dentro lo sciame, non succede nulla. Poi si metteva il sacco al di sotto dello sciame in modo quasi da avvolgerlo. A questo punto, con decisione, si dava un forte scrollone al ramo e tutte la massa di api si staccava e piombava scivolando in fondo al sacco. Si chiudeva l’imboccatura, si scendeva dalla scala e si versava tutta la massa di api dentro al porta-sciami, si chiudeva il coperchio lasciando solo aperta la porticina anteriore. Tante api rimanevano in volo e alcune si posavano di nuovo sui rametti dove prima c’era lo sciame, ma ci vuole pazienza… il porta-sciami lo lasciavamo lì, almeno fino a tarda sera e pian piano le api capivano dov’era la regina ed entravano nell’arnia provvisoria. Poi si preparava una nuova arnia vuota, con qualche favo, meglio se con un po’ di miele, e si travasavano le api del porta-sciami nella nuova arnia. Era nata una nuova famiglia!
Uno sciame medio-grande può pesare da due a tre chilogrammi, venti-trentamila api, la regina sta sempre grossomodo al centro, le api non la mollano un istante.
A volte qualcuno del paese ci avvisava di aver visto uno sciame, o di averne uno in giardino arrivato da chissà dove, in questo caso, appurato che non fosse di un altro apicoltore conosciuto si andava a prenderlo ben volentieri.
Una curiosità:
A proposito della scelta dei fiori … alcuni studiosi dei cervelli degli animali, hanno scoperto che le api sono capaci di distinguere i quadri di Monet da quelli per esempio di Picasso. Presentando loro due quadri uno con un po’ di acqua e zucchero e l’altro con solo acqua imparano in fretta quale preferire e atterrano subito su quello dopo solo tre o quattro tentativi.
Non solo distinguere quadri specifici o dello stesso autore, ma proprio il genere pittorico. Ovvero se, dopo questo primo apprendimento, si ripete con due quadri che mai avevano visto prima, e di altri artisti, ma uno impressionista e uno di arte moderna ebbene sanno subito quale scegliere.
Come le api anche i bombi, gli uccelli e tanti altri.
(Secondo Giorgio Vallortigara, neuroscienziato di fama internazionale, questa è la prova che non ci vuole un gran cervello per fare il critico d’arte 😊).
Come in tutti gli allevamenti anche negli apiari esisteva il problema di qualche malattia che poteva colpire una o più arnie. L’unica che ricordo, ed era una cosa molto seria, era una malattia infettiva chiamata Peste Americana. Una malattia terribile che fa morire le larve nelle celle. Si riproduce con delle spore, le spore sono quasi eterne… Quando un’arnia viene colpita da questa malattia occorre sopprimerla e bruciare anche l’arnia ed i telaini. Papà negli anni cinquanta e sessanta aveva provato a curarle con dei sulfamidici, ma aveva smesso non avendo reali garanzie per il futuro. Se non sbaglio ancora oggi, nonostante i progressi fatti con gli antibiotici o altro, la raccomandazione della Polizia Veterinaria è di bruciare le arnie e tutto.
Che io ricordi solo negli anni Sessanta ci fu un episodio di Peste Americana nel nostro apiario.
All’inizio degli anni settanta papà decise che il nostro giardino non andava più bene per ospitare le api, aveva notato una moria forse dovuta all’uso, nei cortili e negli orti del paese, dove le api andavano a prendere acqua, di insetticidi o altri veleni.
Fu così che decidemmo di portare l’apiario in una cascina di Borriana, dove le acacie lungo l’Elvo e nella Bessa sono tantissime, e l’ambiente non era inquinato. I gentilissimi abitanti la cascina ci concessero un angolo di un grande prato recintato e un locale dove fare la smielatura. In cambio donavamo loro circa un decimo del miele prodotto, una regola antica.
Dopo la smielatura dell’acacia, circa a metà giugno, si portavano le api a Montesinaro.
Era sempre una bella avventura.
Si inchiodavano reticelle sopra le arnie poi si saliva di notte con il camion. Papà aveva iniziato a portarle a Montesinaro già prima della guerra, alla fine degli anni ’30. A volte saliva con carro e cavallo, penso ci volesse tutta la notte. Poi ogni domenica saliva, per controllare le arnie, con il treno fino alla Balma, e da lì in bicicletta su fino a Montesinaro.
Non solo, dopo la smielatura, lui e la sorella mia zia, scendevano in bici fino alla Balma con cinquanta e più kg di miele negli appositi contenitori di latta.
La passione per le api non si ferma davanti alle difficoltà.
Negli anni ’50 portava le arnie nel giardino della canonica, da don Magi, parroco a Montesinaro, ricordo di averlo conosciuto, ma ero proprio piccolo.
Poi per molti anni le portavamo in un piccolo prato sopra la strada, al Campone, le prime case di Montesinaro. Un anno facemmo un’eccezione, le sistemammo alla Malpensà, zona di castagni, quell’anno il miele fu eccezionale, puro castagno, scuro, denso, profumato. Secondo me il miele di castagno non ha rivali.
Era eccellente anche quello di Montesinaro, un millefiori di montagna ambrato e profumatissimo. Anche se il più richiesto era quello di Borriana, acacia quasi pura, chiarissimo.
Mieli eccezionali, alcuni amici appassionati che compravano mieli da vari produttori privati, ci dicevano che il nostro miele era il migliore. In effetti lo curavamo molto, dopo la smielatura lo si filtrava ancora, approfittando che era caldo, con un colino sottile per togliere le eventuali particelle di cera o altro.
Facevamo la smielatura solo quando le celle dei melari erano quasi tutte opercolate, cioè il miele era perfettamente maturo, (le api lo tengono caldo e ventilato alcuni giorni prima di chiudere le celle con un opercolo di cera, perde un po’ di umidità e diventa più denso).
Poi si riempivano delle latte stagnate fatte a parallelepipedo che contenevano 20-25 kg di miele. Lo si teneva in un locale in solaio. Se non veniva venduto entro l'inverno, per il tempo e per il freddo il miele cristallizzava, senza perdere nulla delle sue qualità. C'erano acquirenti che lo preferivano così, cristallizzato. Di fatto il miele non ha scadenza. Lo si vendeva ai conoscenti del paese che venivano con vasetti di vetro da riempire. Quasi sempre era compito mio e di mio fratello, poi ci tenevamo l’incasso.
Avevamo una bilancia per fare la tara dei barattoli prima di riempirli a cucchiaiate. Ricordo che il peso specifico del miele è 1,4. Quando qualcuno arrivava con un barattolo da un litro si evitava di pesare e si calcolava 1,4 kg di miele. Il prezzo, diceva papà, grossomodo seguiva negli anni quello del burro, e ancora oggi mi pare sia così.
Dal 1980 circa cominciò un brutto periodo, che prosegue ancora oggi.
Le api erano nervose, si vedeva che c’era qualche problema, ma non capivamo. A terra davanti alle arnie capitava di trovare api che zampettavano, incapaci di volare. Osservandole meglio a volte erano senza una o due ali (ne hanno quattro di norma) oppure erano in qualche modo deformi. Capitava da sempre, solo che adesso erano in numero ben maggiore, perché?
Poi si cominciò di parlare della Varroa, un acaro proveniente dall’Asia stava infestando le arnie di tutta l’Europa. È un parassita, una specie di pulce che vive attaccata alle api, e lì non fa danni particolari. Il guaio è che si piazza nelle cellette dove le api fanno la metamorfosi, uovo-larva-pupa e ape adulta, e si nutre un po’ delle larve e delle pupe, così facendo nascono api deformi, o peggio. Purtroppo non ci si poteva fare molto, in due o tre anni le arnie, con sempre meno api, morivano. Poi con il tempo si trovarono cure di vario genere, ma difficili da applicare, ancora oggi è un problema spinoso, una persecuzione per gli apicoltori.
A parer mio direi che fino a cinquanta anni fa era abbastanza facile diventare apicoltori, le arnie avevano buone speranze di sopravvivere anche in mani inesperte. Oggi non è più così, occorre grande esperienza e grande impegno per portare avanti un apiario.
In quegli anni papà era molto dispiaciuto, l’idea di dover mettere sostanze chimiche nelle arnie per curare le api non gli piaceva per nulla. C’erano anche dei metodi puramente fisici, per esempio far cadere le varroe dal corpo delle api con trappole da contorsionista, oppure far uscire tutte le api e scaldare l’arnia e i telaini (fino a 43° mi pare) uccidendo le varroe, ma erano metodi poco efficaci, traumatici, non risolutivi.
Insomma, papà come tanti piccoli apicoltori abbandonò l’attività. Non era più possibile viverla come un hobby appassionante come aveva fatto per tanti anni, quando ogni singolo alveare era per lui come un animale domestico cui dedicare affetto e attenzione.
Ora non so come chiudere queste poche righe, sapendo di aver detto ben poco del meraviglioso mondo delle api.
Meraviglioso e stupefacente perché una singola ape è poco più di nulla, non sopravvive neppure, da sola. Ma una famiglia di api sa trovare e difendere la casa, raccogliere nettare e polline lontano chilometri, sa produrre il miele e conservarlo per anni, sa fare la propoli per cementare le fessure e uccidere batteri e muffe, sa come riscaldare o rinfrescare l’alveare, sa come rinnovare la propria regina e mille altre cose.
Un alveare è un sistema affascinante e complesso, dove il tutto è molto, molto più grande della somma delle sue piccole parti..jpg)
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